I solfiti nel vino tra demonizzazione e buonsenso

I solfiti, cosa sono costoro?

Impiegati tradizionalmente nel vino sotto forma di anidride solforosa (SO2), sono agenti antisettici e antiossidanti: la loro funzione è sia conservativa (combattere l’ossidazione del vino per farlo durare più a lungo) sia protettiva (combattere la formazione di microrganismi batterici che potrebbero danneggiare il prodotto).

Di recente, sull’onda delle istanze “naturiste” e “puriste” che hanno investito il mondo dell’agroalimentare sotto diverse forme (dai principi biologici a quelli biodinamici per arrivare al “naturale” e al “vegano”), i solfiti sono entrati nel dibattito dell’opinione pubblica e messi in cima all’indice dei “cattivi” come sostanze dannose quando non “impure”, passando così da un piano strettamente salutistico a uno più squisitamente ideologico.

Il problema, come sempre, è la misura (dare il giusto peso alle cose evitando le demonizzazioni alla moda) e la comprensione (capire esattamente di cosa stiamo parlando). Vediamo di fare un po’ di chiarezza.

L’anidride solforosa, che è un gas formato dalla combustione di zolfo in aria, viene impiegata in enologia (anche se è un conservante comune largamente utilizzato dall’industria alimentare per cibi e bevande) in tutte le varie fasi della produzione del vino (dal mosto all’imbottigliamento) sotto forma liquida (SO2 pura) o sotto forma di sale (generalmente metabisolfito di potassio) e va distinta tra “combinata” e “libera”. La prima è legata ad alcune componenti del mosto o del vino come zuccheri, aldeidi e sostanze coloranti, mentre la seconda, quella “libera” e come tale responsabile dell’azione antisettica e antiossidante, si trova sotto forma di gas disciolto (“SO2 molecolare”) e di sali dell’acido solforoso. La somma delle due tipologie (“combinata” + “libera”) genera l’indice della solforosa “totale”, che  è il valore di riferimento finale.

L’Unione Europea (Reg. CE n. 606/2009) ha stabilito i limiti massimi di anidride solforosa totale nei vini nella quantità di 150 mg/l per i rossi e 200 mg/l per i bianchi e rosati, limite elevabile rispettivamente a 200 e 250 mg/l per un tenore zuccherino pari o superiore a 5 g/l (per i vini biologici certificati il limite è di 100 mg/l per i rossi e 150 mg/l per i bianchi, con la possibilità di aumentare di 30 mg/l in presenza di più di 2 grammi di zucchero residuo).

Nel caso di vini “speciali” (ovvero dolci, siano essi “tardivi”, “muffati” o passiti) provenienti da particolari regioni geografiche, il limite si alza da 300 mg/l (come per Spätlese, Loazzolo, Picolit) a 350 mg/l (ad esempio per gli Auslese) fino ai 400 mg/l dei Sauternes (ma anche dei Trockenbeerenauslese tedeschi, dalle Sélection de Grains Nobles alsaziane o dell’Albana Passito), che un tempo erano il bersaglio preferito dei consumatori che il giorno dopo accusavano un cerchio alla testa per averne bevuto solo un paio di bicchieri. È proprio l’emicrania il danno più diffuso provocato da un eccesso di solforosa nel vino, ma non è l’unico: si contano anche una riduzione della capacità di assorbimento della vitamina B1, ipersensibilità (soprattutto per le persone affette da asma) e reazioni allergiche.

Avendo effetti tossici sull’organismo se assunta in quantità consistenti, la dose massima giornaliera consigliata dalle tabelle OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) è di 0,7 mg/kg di peso corporeo: ovvero una persona di corporatura intorno agli 80 kg non dovrebbe assumere più di 56 mg/l di solfiti al giorno (bevendo comunque più di una bottiglia di vino, che ha una capacità di 0,75 litri), mentre una peso “più leggero” (60 kg) dovrà limitarsi a 42 mg al giorno, quote oggi considerate virtuose anche da parte delle normative più rigide (il limite dei solfiti nel vino “naturale”, cioè senza aggiunta di qualsiasi tipo di additivi o prodotti di sintesi, è di 30 mg/l per i rossi e 40 mg/l per i bianchi). Incolore, pungente e acre, l’anidride solforosa è letale solo se ingerita in dosi massicce: l’indice relativo è stabilito in ben 1,5 g/kg di peso corporeo, ovvero la persona di 80 kg della precedente equivalenza dovrebbe assumere 120.000 mg/l di solfiti al giorno per mettere a rischio la propria vita, che corrispondono, considerando il valore massimo di solforosa in un vino rosso “convenzionale” (150 mg/l) a 800 litri di quel vino: più di 1000 bottiglie!

Lungi dal demonizzare i solfiti come il male principale del consumo del vino (ovvero di una bevanda prevalentemente alcolica), bisognerebbe ridimensionarne la portata negativa senza trascurarne l’incidenza sulla salute.

Di seguito alcuni punti da tenere in considerazione a riguardo.

I solfiti sono presenti anche in molti altri alimenti, e come tali devono essere obbligatoriamente dichiarati nei prodotti preconfezionati (ma non in quelli freschi, come ad esempio i crostacei) da un codice E (che va dal 220 dell’anidride solforosa al 228 del solfito di potassio) e che vede punte di 250 mg/l (succhi di agrumi e pomodori), di 400 mg/l (i preparati per i purè), fino alla frutta secca che va da un minimo di 600 mg/l (mele, pere) a un massimo di 2000 mg/l (albicocche, uvetta, prugne, fichi) – valori decisamente superiori rispetto a quelli mediamente contenuti in una bottiglia di vino – senza che nessuno abbia finora promosso una campagna di sensibilizzazione (o accanimento) a riguardo.

Un’opportuna ossigenazione del vino prima del consumo, sia nel bicchiere sia nel decanter, libera il 30-40% dell’anidride solforosa contenuta in un vino.

I solfiti, come già ricordato, hanno anche funzioni positive: dall’azione antiossidante e antibatterica all’agevolazione del lavoro dei lieviti in fermentazione, fino all’estrazione e stabilizzazione del colore in fase di macerazione per i vini rossi. Ma un loro eccesso (come quello di altre componenti interne della vinificazione, dalla macerazione alla barrique) penalizza il profilo organolettico di un vino, rendendolo spiacevole all’olfatto e al gusto (odore marcato di zolfo e sostanze affini).

I solfiti vanno limitati, non necessariamente eliminati. Se la produzione generale, sempre più sensibile all’argomento, ne sta efficacemente riducendo la presenza nel vino (lavorando con uve sane, controllo della temperatura in fase di fermentazione, ecc.), esiste un coefficiente di produzione naturale (ovvero spontaneo) dei solfiti durante la fermentazione (anche con lieviti indigeni e non selezionati) che è quantificabile fino a un massimo di 40 mg/l: diverse vecchie annate di Barbacarlo e Montebuono prodotti in Oltrepò da un veterano come Lino Maga, rossi “naturali” ante litteram (quando il vino naturale non era ancora argomento di dibattito e i solfiti erano meno conosciuti dello spread), la solforosa totale dichiarata in etichetta (fin da tempi non sospetti) è inferiore a questo standard. Gli organizzatori della manifestazione “naturale” Vini di Vignaioli di Fornovo richiedono ai produttori di non presentare vini che superino i 50 mg/l di solforosa per i rossi e i 60 mg/l per i bianchi.

Se la legislazione permette di non dichiarare in etichetta “contiene solfiti” per i vini che ne contengono una quota inferiore a 10 mg/l, conviene diffidare dell’espressione “zero solfiti”, che spesso è un “claim” alla moda dalle conseguenze perniciose (oggi il mercato giapponese vuole solo vini senza solfiti, prescindendo da tutto il resto) oppure una realtà ottenuta ricorrendo ad alcune forzature (uso dell’acido ascorbico, microfiltrazioni che impoveriscono la materia).


massimo-zanichellia cura di
Massimo Zanichelli
Docente di cinema, saggista, wine writer, documentarista. Le sue due grandi passioni e competenze, cinema e vino, si sono virtuosamente riunite nei suoi film documentari precedenti, dedicati all’esplorazione di alcune zone vinicole italiane.


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